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TORINO. Il soggiorno torinese di Cristian Chironi da Camera.

Per l’artista Cristian Chironi (Nuoro, 1974) la fotografia non rappresenta un rifugio sicuro, bensì un terreno di sperimentazione in continua trasformazione.
La sua personale, «Abitare l’immagine», curata da Giangavino Pazzola e ospitata nella Project Room di Camera-Centro Italiano per la Fotografia di Torino fino al primo febbraio 2026, offre un viaggio attraverso oltre vent’anni di ricerca seguendo «le direttive di un navigatore impazzito, incrociando materiali e linguaggi diversi della fotografia», racconta l’artista. «Da sempre sono interessato a “geografare” spazi, processandoli all’occorrenza, con l’uso di tecniche che al meglio esprimono il tempo che sto vivendo. Non mi è mai interessato appartenere a qualcosa, se non quando l’uso di questo termine mi conviene; trovo nella diversità lo strumento più adatto a comunicare riflessioni ed emozioni che appartengono alla vita».

Un approccio che in mostra si traduce in un percorso di rimandi e cortocircuiti visivi: «Ho voluto inserire opere inedite che segnano l’inizio di questo percorso, a partire dal 1998 sino ad arrivare a soluzioni più recenti, dando il senso di una ricerca rimasta coerente, pur diversificandosi nel tempo come un serpente che cambia pelle».
A partire da questa prospettiva, Giangavino Pazzola costruisce un progetto curatoriale che mette al centro il rapporto tra immagine ed esperienza, spostando l’attenzione dal documento alla presenza. «Le immagini rappresentano uno degli elementi principali con i quali Chironi formalizza gran parte delle sue opere o fungono da scintilla alla sua creatività, e trovo significativo che questa attitudine sia radicata in ambito performativo. Da una parte, possiamo dire che le immagini sono materia nelle sue mani e, allo stesso tempo, supporto per registrare un atto e spazio operativo per un’immagine istintiva che prende forma così come si effettua un’azione. Nell’opera di Chironi le fotografie sono dunque, dal mio punto di vista, materiale, documento e gesto».

Questa visione si lega perfettamente alla riflessione più ampia di Pazzola sul ruolo dell’immagine nel panorama contemporaneo e sulla natura ibrida della ricerca di Cristian Chironi: «Così come fatto a Camera nel passato recente, o anche nel mio percorso personale, con autori come Francesco Jodice, Comani, Ventura, Fenara, Benassi, Vitturi, Rosi, questa esperienza sottolinea ancora una volta il fatto che la scena della fotografia e dell’immagine contemporanea non sia ancorata a una visione specialistica della pratica artistica».

È proprio in questa prospettiva di sconfinamento tra linguaggi che si inserisce «DK» (2009), sigla catalografica delle serie a fumetti di «Diabolik», in cui Cristian Chironi mette in dialogo due mondi solo in apparenza inconciliabili: la scultura neoclassica e il fumetto noir. Davanti a una statua di Antonio Canova, una figura nera, tesa in avanti, sembra pronta a scattare: un folle accostamento che diventa un divertente antagonismo immateriale, tra mascheramento e gioco del crimine. Osservando la scena (questo ladro in equilibrio tra gesto e finzione) viene spontaneo chiedergli come si ruba davvero un’opera d’arte.
«Un’opera in un museo la si ruba percorrendo le innumerevoli vie di fuga che questa trasmette, racconta l’artista. “DK” nacque in un periodo segnato da un controllo asfissiante degli spazi pubblici e, al tempo stesso, dalla loro messa in crisi attraverso continui atti di sovversione. In queste azioni illegali uso come pretesto il furto dell’aura dell’opera d’arte e dei luoghi della sua conservazione fisica e mnemonica (il museo, il libro) facendoli collidere con l’immaginario del ladro. Colpi preparatori senza previa autorizzazione che uniscono immaginazione, realtà ed esigenza creativa». In «DK» il «furto» non è sottrazione, ma apertura: un modo per restituire all’immagine la propria libertà, sottraendola alla fissità dell’archivio e riattivandone la forza originaria.

Questa libertà attraversa tutto il lavoro di Chironi, anche nei progetti che lo hanno portato a vivere e lavorare dentro le architetture di Le Corbusier in diverse parti del mondo. In quelle esperienze l’artista ha abitato fisicamente lo spazio, trasformandolo in un’estensione della propria ricerca visiva, così come oggi abita l’immagine come luogo mentale e performativo. Del resto, la sua compagna di viaggio, una Fiat 127 Special Camaleonte, divenuta quasi un prolungamento del suo linguaggio, è ormai parte integrante del suo immaginario.
«C’è un ritratto fotografico dove indosso come cappello un libro di Le Corbusier aperto in testa, a imitazione di un tetto-casa. Penso che questa immagine racchiuda il senso del mio abitare. Ancora più, quando piego le pagine estrapolate da un libro di architetture di Le Corbusier, portandole su un’altra dimensione spazio-temporale, è significativo che quelle immagini che utilizzo le abito realmente, domesticamente intendo, aprendone le finestre, lavando i pavimenti o preparando il caffè».

Il dialogo tra artista e curatore nasce anche da una complicità geografica ed affettiva. Entrambi sardi, Chironi e Pazzola condividono un’appartenenza che si riflette, con ironia e naturalezza, nel loro modo di collaborare. Ho chiesto al curatore come sia nata l’idea di questa mostra e quanto abbia influito quella comune appartenenza, geografica, ma forse anche emotiva, nel loro dialogo.
«Ovviamente per riprenderci la capitale! È sempre molto divertente e bizzarro che due sardi in una stanza facciano da soli una notizia. Quando un curatore di Bologna, Roma, Milano, Torino, La Spezia lavora con un autore o autrice della stessa città, questo aspetto non è rilevante come per noi isolani.
Questa mostra è nata per le ragioni che ho elencato. Poi che questo dialogo si sia nutrito anche di vermentino, Drive con Camaleonte tra tramonti e pale eoliche presenti nelle zone interne, salsedine e paesaggi incontaminati del Golfo dell’Asinara o della Barbagia è un altro paio di maniche».

A inizio 2026 Cristian Chironi partirà da Genova a bordo della sua «Camaleonte» verso la Tunisia per abitare Villa Baizeau, la residenza modernista progettata da Le Corbusier a Cartagine tra il 1928 e il 1930 per un nuovo attraversamento performativo del Mediterraneo, mentre Giangavino Pazzola conclude la sua ricerca sulle Nuove Strategie Documentarie che approderà a Camera il prossimo dicembre: due traiettorie che, in modi diversi, continuano a interrogare l’immagine come luogo di passaggio.

Autore: Rischia Paterlini

Fonte: www.ilgiornaledellarte.com 14 nov 2025

A cura di DMF
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